La Bibbia e i Padri del deserto (per non dire degli U2)

La Bibbia e i Padri del deserto (per non dire degli U2)

Sempre l’uomo mira a qualcosa che trascenda il suo mondo più vicino. È incapace di starsene contento entro i limiti che il corpo e i sensi esteriori gli impongono. Né gli basta il sogno o il semplice viaggio fantastico, per quanto la rêverie svolga nella vita di ognuno e nella storia delle civiltà una funzione tutt’altro che trascurabile, se solo se ne considerino le presenze letterarie o culturali in genere. L’uomo vuole qualcosa di più. Si rifiuta ad un puro e semplice stato di flâneur dello spirito per essere pronto a concedersi a qualcosa di saldo, che dia senso e valore a quello che altrimenti sarebbe un puro vagabondare.

Comprende però facilmente di quanti lacci sia fatta la vita: lussuria, rancori, bramosie. Lacci che bisogna sciogliere, e non è facile. V’è necessità delle condizioni giuste, anche materiali, ove lo spirito mostri la sua forza per poter risultare alla fine vincitore. Il luogo esteriore è importante per realizzare metaforicamente quello stesso luogo entro di sé. L’uomo ha bisogno del deserto, per realizzare il deserto interiore: è il luogo dell’aridità, che rende possibile volgersi all’Amato, evitando la lussureggiante vegetazione delle distrazioni. Bisogna che nulla cresca anarchicamente, come germoglio e sviluppo di pensieri diversi, che allontanerebbero dal sentiero. L’uomo ha bisogno della voce del vuoto deserto, quali che siano le sue forme, per ascoltare nel cuore la voce di Dio.

In russo pustinia, deserto, deriva da pusto, pustinia, che significa “il vuoto”. Il senso più profondo dei due termini è identico. Nel deserto si può essere abbandonati da Dio oppure abbandonare tutto per Dio. Nel vuoto di ogni cosa, e in particolare di se stessi, ci si avvicina a Dio dopo aver respinto le tentazioni dal suo Avversario. […] In questo senso il deserto non è necessariamente una distesa di sabbia come il Sahara. Per i russi la foresta immensa e praticamente vergine che occupava gran parte del loro territorio ne faceva le veci; e la tradizionale santità ortodossa vi fioriva, proprio come in Siria, in Palestina o in Egitto[1].

L’uomo ha bisogno di quel vuoto per realizzare entro di sé il vuoto necessario ad accogliere Qualcuno che gli porta l’anelata pace, lo riempia di senso, lo avvolga nella sua protezione. Quel Qualcuno è Dio. E Dio è geloso:

Israele, voglio ricordarti come mi eri fedele negli anni della tua giovinezza, come mi amavi quando eri fidanzata. Camminavi dietro a me nel deserto, là, dove non si può seminare. Eri soltanto mia, come mia è l’offerta dei primi prodotti del raccolto. Allora io punivo tutti coloro che ti facevano del male. Lo dico io, il Signore[2].

La ricerca del vuoto non è qualcosa che possa riguardare solo gli antichi asceti. È la stessa motivazione che ha spinto Charles de Foucauld, giovane di nobile famiglia francese, a trasferirsi nel deserto, la “sua” Nazareth, dove vivere nell’imitazione di Cristo. È la stessa ricerca che ritroviamo là dove non ci aspetteremmo, abituati al pregiudizio di vedere il rock e altre produzioni musicali contemporanee come estranee, se non antitetiche alla religione e all’ascetica. Ricordiamo alcuni versi degli U2: «Ti mostrerò un luogo/ in alto su una pianura desertica,/ dove le strade non hanno nome»[3]. Il deserto è il luogo del tuono, voce di Dio. E sembrano echeggiare ancora in un altro testo i richiami biblici di un Dio che si nasconde tra le nubi: «Tuono, tuono sulla montagna/ C’è una nuvola di pioggia nel cielo del deserto/ Da lontano mi vedevi arrivare/ io chiamavo/ io chiamavo»[4].

*****

Stagione straordinaria però è quella dei cosiddetti Padri del deserto, destinata a segnare tanta, tantissima parte di tutta l’ascetica cristiana. Guardiamo all’area egiziana. È lì che, nel corso del III e IV secolo, in specie dopo l’editto di tolleranza di Costantino il Grande, si ritirano tanti per la pratica delle virtù cristiane. Lì trova piena realtà la loro aspirazione alla vita ascetica, condizione necessaria per l’abbandono delle lusinghe terrene e ricevere il dono della contemplazione. Diverse le possibilità: dalle scelte degli stiliti, all’eremitismo più puro, a soluzioni mitigate, che prevedono momenti di vita comune, fino alla creazione di vere e proprie comunità semieremitiche sul modello di Ammonio e Macario.

Dalla tradizione di questi Padri del deserto, in particolare da coloro che conducono uno stile di vita semieremitico, derivano i famosi “Detti” (in greco apophtégmata, un termine che esprime anche un valore sentenzioso), vale a dire insegnamenti soprattutto relativi alla vita pratica del monaco cristiano, sia in termini di tecniche ascetiche sia di atteggiamento verso l’uomo, la natura, Dio.  Hanno carattere in tanti casi “esistenziale”, con la funzione di formare alla perfezione della vita cristiana possibile su questa terra e preparare un destino di gloria. Le parole dei grandi maestri, dapprima trasmesse oralmente, pian piano tra la fine del IV e il V secolo vengono fissate per iscritto, anche per le necessità di preservare quel tesoro di inestimabile saggezza in seguito ad eventi storici minacciosi. Naturalmente, è problematico sapere quanto ciò che ci è pervenuto sia conforme agli originali.

Si formano comunque varie tradizioni manoscritte, comprendenti anche apporti contenutistici da altre aree geografiche rispetto a quella indicata. La collezione detta Alphabeticon, almeno nella prima parte, dispone gli autori in ordine alfabetico. Ma, nell’ambito di ogni lettera la collocazione segue un ordine diverso, in base all’importanza e al prestigio degli anziani (con tale termine qui si intende soprattutto il più saggio, spesso più anziano anche d’anni). V’è poi la collezione “sistematica”, ordinata per argomenti.

Chiunque abbia solo orecchiato qualcosa della vita ascetica, sa bene quanto difficile essa sia e quanti rischi debba fronteggiare. Ecco perché l’esperienza, la maturità e la perfezione ascetica raggiunta giocano un ruolo fondamentale di indirizzo, di conforto, di sprone o di richiamo. Il maestro è oggetto quasi di venerazione per essere portatore di una saggezza ed una sapienza superiori. È un uomo da imitare.  

Gli anziani dicevano: “Se si ha fede in qualcuno e ci si abbandona alla sua obbedienza, non c’è bisogno di preoccuparsi dei comandamenti di Dio; basta abbandonare al proprio padre tutte le proprie volontà e si sarà senza colpa davanti a Dio, perché Dio ai novizi non chiede altro che il travaglio dell’obbedienza”[5].

Al maestro ci si rivolge con una deferenza non consueta e la stessa gente lo onora come fosse un alter Christus. Se Cristo è stato obbediente nei confronti del Padre, e lo è stato fino alla morte, lo stesso deve valere per i monaci nei confronti degli anziani. Anche a questi è riservato l’appellativo di “pneumatofori”, lo stesso degli evangelisti. Quando Macario va a trovare altri monaci, questi lo accolgono con rami di palma, richiamando evidentemente l’accoglienza riservata al Figlio di Dio a Gerusalemme nel giorno delle Palme[6]. A loro volta, gli anziani, consapevoli dei propri limiti, rispondono alle richieste dei discepoli basandosi sul sicuro fondamento della Scrittura.

Si realizza la sequela Christi. Come Cristo è vissuto nella tensione costante verso il Padre, così il monaco vive, deve vivere in una continua tensione escatologica. Non dimentichiamo che egli deve farsi deserto, cioè ridursi alla nudità dello spirito per poter vedere dentro di sé il Verbo, e gioire nel futuro celeste della vita eterna. Sicché la vita del monaco è combattimento fra le proprie tendenze terrene e il compito che egli si è prefisso: desertificare la propria anima. Non è roba per tenerelli, ma vera e propria lotta. Anzi, lotta asperrima. Del resto, anche Cristo non ha usato un linguaggio mellifluo: «Chi ha un mantello, lo venda e compri una spada»[7]. Insomma, secondo l’antico detto la vita è milizia.

*****

Dominante nella vita del monaco è ovviamente il rapporto con la Bibbia, parola di Dio da ascoltare leggere ricordare e seguire, da “ruminare”. E ruminatio è la meditazione incessante per contrastare le potenze infernali, facendo anche esercizi particolari, simile a quanto fa la pecora per assimilare “le spine del deserto”[8]. In un contesto di sostanziale ignoranza della scrittura diventava ancora più importante la memorizzazione. Addirittura si parla di monaci in grado di ripetere l’intera Bibbia. Cosa che, se al giorno d’oggi sarebbe impossibile, anche allora era concepibile solo per pochi e per di più in un contesto di assoluta dedizione ascetica, cioè di assoluta consapevole attenzione.

In generale, ogni monaco impegna l’intera esistenza nello studio biblico e proprio per questo troverà del tutto spontaneo richiamare l’insegnamento dell’autore sacro. La Bibbia rimane libro di rivelazione e quindi di salvezza al di là delle profondità esegetiche del monaco.

Basta che tu legga. Ho udito che il padre Poemen e molti padri dissero questa parola: “L’incantatore di serpenti non conosce il valore delle parole che pronuncia, ma la bestia ascolta e lo conosce e si sottomette e si umilia. Così è di noi: se anche ignoriamo il senso delle parole che diciamo, i demoni ascoltano e si allontanano con terrore”[9].

Le parole e i discorsi e i detti dei padri sono impregnate di uno spirito biblico, che si manifesta nelle citazioni, parafrasi, allusioni, interpolazioni, associazioni di idee o di immagini, lievi scostamenti o collazioni. Sarebbe troppo facile citare esempi di tutti questi procedimenti, quali che siano, ma non rientra nell’economia di questo intervento.

La Scrittura viene impiegata secondo sensi diversi. Ogni monaco sa bene come sia possibile assegnare una pluralità di sensi ad ogni passo biblico, applicando certe forme di ragionamento nella piena spontaneità di un’anima religiosamente orientata, non sotto lo stimolo di studi severi. D’Ayala richiama un’espressione rabbinica:

La parola di Dio è un fuoco, un martello che frantuma la roccia; come il martello fa sprizzare dalla roccia che esso batte innumerevoli scintille, così ogni parola di Dio rivela molteplici significati[10].

Non tanti però sono i passi interpretati allegoricamente dai Padri, che pure vivevano in un ambiente estremamente sensibile a questo tipo di letture[11]. Soprattutto Poemen, ma anche Cronio2 e Pietro Pionita2 sono orientati verso questo tipo di lettura. Ne è un esempio cospicuo l’episodio della conquista dell’Arca da parte di nemici e della caduta della statua del dio Dagon alla vicinanza con l’arca stessa:

Se la mente dell’uomo si lascia imprigionare dalle proprie inclinazioni (=le genti straniere), esse la trascinano finché l’abbiano condotta sopra a una passione invisibile (= l’idolo). Se in quel luogo la mente si volge a cercare Dio (=l’arca) e si ricorda del giudizio eterno, subito la passione cade e si dilegua[12].

La Bibbia è “il” riferimento: «Qualunque cosa tu faccia o dica, basati sulla testimonianza delle Sante Scritture»[13]. Dinanzi a queste, l’asceta si pone in atteggiamento di umile ascolto, ma al tempo stesso consapevole di non poter violentare il testo. Sensus non est inferendus, sed efferendus, avrebbe detto Emilio Betti.Il monaco vuole che fluisca l’intenzione dell’autore sacro. Le due affermazioni, da una parte quella sulla pluralità dei sensi scritturali e dall’altra quella sul rispetto dell’intenzione autorale, non sono tra loro contraddittorie, anzi esse si combinano nell’atteggiamento di umiltà e di apertura proprio di ogni monaco. Ma umiltà non vuol dire assenza di valutazione. Dopo essersi inutilmente macerato nel digiuno per acquisire la chiarezza di mente necessaria all’interpretazione di un passo scritturale, un monaco si decide a chiedere lumi ad un altro monaco. Allora un angelo gli si rivolge con queste parole: «Le settanta settimane di digiuno non ti hanno avvicinato a Dio, ma quando ti sei umiliato ad andare dal tuo fratello, sono stato mandato ad annunciarti il senso di quella parola»[14]

Ognuno ha la percezione di una relazione diretta tra lui stesso e la Bibbia. Ogni sollecitazione ad operare il bene, a seguire il cammino dell’ascesi è detta per lui, chiama in gioco proprio lui. Varrà anche per altri senza dubbio, ma in quel momento vale per lui ed ha valore esemplare. Si pensi soltanto a quella che sarà conosciuta come “preghiera del cuore” o “preghiera di Gesù”, che com’è noto trae la sua formulazione di fondo dalla preghiera del pubblicano: una figura di grande umiltà, come l’altra del buon ladrone, che ha grande rilievo presso i santi asceti. Si pensi al continuo richiamo al buon ladrone, visto come una sorta di alter ego, un altro sé che ricorda la nostra condizione attuale. La Bibbia diventa altresì la fonte dei tipi indispensabili alla creazione di similitudini o di metafore di vita: «ospitale come Abramo, mite come Mosè, santo come Aronne, paziente come Giobbe, umile come Daniele, eremita come Giovanni, contrito come Geremia, dottore come Paolo, fedele come Pietro, saggio come Salomone»[15].  Insomma, la Bibbia è la vita di questi monaci.

In conclusione, da queste brevissime note si ricavano pochi, ma essenziali aspetti dei modi di porsi e agire degli straordinari saggi del deserto. Soprattutto però si ricava un modello perennemente valido che chiunque miri ad una più alta dignità spirituale può adottare: nel Medioevo di eremi ed abbazie o nel mai sazio Occidente, in luoghi inospitali o in futuristiche città, fra nobili di antico lignaggio o suonando in un gruppo rock.

                                                                                               Fernando di Mieri


[1] Irina Goraïnoff, Serafino di Sarov. Vita, colloquio con Motovilov, scritti spirituali, trad. G. Dotti, Piero Gribaudi Editore, Torino 1981, p. 31.

[2] Geremia, 2, 2-3, trad. interconfessionale, Editrice Elle Di Ci- Alleanza Biblica universale, Torino- Roma 1999, p. 541.

[3] «I’ll show you a place/ High on a desert plain/ Where the streets have no name» (Where the streets have no name, in U2, The Joshua Tree, trad. F. Di Mieri)

[4] «Thunder, thunder on the mountain/ There’s a rain cloud in the desert sky/ In the distance you saw me coming/ I was calling out/ I was calling out» (Trip through your Wires, in U2, The Joshua Tree, trad. F. Di Mieri).

[5] 950b, in Vita e detti dei Padri del deserto, a cura di L. Mortari, Città Nuova, Roma 2008, p. 64.

[6] Cfr. Gv 12, 12-13, ed. cit., NT, p. 167, cit. in Vita e detti dei Padri del deserto, ed. cit., p. 56.

[7] Luca, 22-36, ed. cit., NT, p. 135.

[8] Cfr. Vita e detti dei Padri del deserto, ed. cit., p. 24.

[9] PJ V, 32 = N 184, in Vita e detti dei Padri del deserto, ed. cit., p. 24.

[10] Talmud, Sanhédrin, 34°, in Vita e detti dei Padri del deserto, ed. cit., p. 21, n. 16. Questo passo talmudico fa riferimento a Ger. 23, 29, ed. cit., AT, p. 575.

[11] Si pensi che all’indirizzo esegetico alessandrino, da Filone a Origene. Si veda anche l’epistola ai Galati, 4 21- 5,1, ed. cit., NT, p. 291.

[12] Il riferimento biblico è a Samuele, 5, 1ss, ed. cit., AT, p. 321. Il detto è di Cronio 2, in Vita e detti dei Padri del deserto, ed. cit., p. 35.

[13] Antonio, 3, in Vita e detti dei Padri del deserto, ed. cit., p. 24.

[14] PJ XV, 72 = N 314, in Vita e detti dei Padri del deserto, ed. cit., p. 29